TRA UTOPIA E ALTERITÁ

SPUNTI DI RIFLESSIONE SULL’ELABORAZIONE E LA DEFINIZIONE DEI PICTA NILOTICA ROMANA

 

ENTRE LA UTOPÍA Y LA ALTERIDA

ALGUNAS REFLEXIONES SOBRE LA ELABORACIÓN Y LA DEFINICIÓN DE LOS PICTA NILOTICA ROMANA

 

Eleonora Voltan (Universidad de Málaga)

eleonora.voltan92@gmail.com

 

Recibido: 16 junio 2022 / Aceptado: 25 septiembre 2022


Riassunto: A partire dal III secolo a. C. si delinea in maniera più nitida quella feconda ma, al tempo stesso, ambivalente relazione tra Egitto e Roma. Con la stipula del trattato di amicitia nell’anno 273 a. C., appaiono sempre più evidenti le ripercussioni sul piano politico, culturale, economico e religioso sul suolo italico. Peculiare interesse riveste anche il ruolo della produzione artistica generata dall’incontro-scontro tra il mondo romano e quello egiziano. In particolare, l’interesse di questo contributo è indirizzato verso l’elaborazione del paesaggio ispirato alla terra del Nilo nella produzione pittorica romana di I secolo. La delineazione di questa tipologia iconografica si fonda su alcuni dettagli figurativi specifici, tra cui quelli legati al mondo della flora e della fauna. Un insieme di elementi che, fondendosi armoniosamente insieme, conducono verso la configurazione di un’ambientazione naturale tesa ad un’ideale di fluttuante utopia che, tuttavia, collide con l’insita portata di alterità dell’immaginario nilotico. Un’alterità fortemente vincolata alla presenza dei pigmei, figure contraddistinte nella maggior parte dei casi da tratti caricaturali e grotteschi, inseriti spesso in situazioni comiche, se non paradossali. Obiettivo del presente articolo è quello di mettere in luce la relazione chiaroscurale tra la ‘natura’ costituente il paesaggio nilotico, ovvero la flora e la fauna tipica, riflesso di una cristallizzata utopia naturalistica, e l’elemento umano, in questo caso i pigmei, sinonimo di alterità per antonomasia, concretizzazione non tanto di una realtà esistente quanto più di uno status estraneo ai limiti del tempo e dello spazio umanamente concepiti.

Parole chiave: Egitto; Iconografia; Paesaggio; Pittura; Roma.

Resumen: A partir del siglo III a. C., la relación fecunda, pero, al mismo tiempo, ambivalente entre Egipto y Roma se hizo aun más clara. Con la estipulación del tratado ‘de amistad’ firmado en 273 a. C., las repercusiones políticas, culturales, económicas y religiosas en suelo itálico se hacen cada vez más evidentes. Así mismo, resulta de particular interés el papel de la producción artística generada por el encuentro entre el mundo romano y el egipcio. En concreto, el interés de este trabajo se dirige a la elaboración del paisaje inspirado en la tierra del Nilo en la producción pictórica romana del siglo I. La elaboración de esta tipología iconográfica se basa en ciertos detalles figurativos específicos, incluidos los relacionados con el mundo de la flora y la fauna. Un conjunto de elementos que, mezclándose armoniosamente, llevan a perfilar un paisaje orientado hacia un imaginario utópico que, sin embargo, se enfrenta a la alteridad propia de las escenas nilóticas. Una alteridad fuertemente relacionada con la presencia de pigmeos, figuras caracterizadas en la mayoría de los casos con rasgos caricaturescos y grotescos, a menudo insertados en situaciones cómicas, cuando no paradójicas. Este artículo pretende destacar la relación de claroscuros entre la ‘naturaleza’ que constituye el paisaje nilótico, es decir, la flora y la fauna típicas, reflejo de una utopía naturalista cristalizada, y el elemento humano, en este caso los pigmeos, símbolo de alteridad y manifestación de un estatus ajeno a los límites del tiempo y el espacio concebidos por el ser humano.

Palabras claves: Egipto; Iconografía; Paisaje; Pintura; Roma.


 

Como citar este artículo:

 

Voltan, E. (2022). Tra utopia e alteritá. Spunti di riflessione sull’elaborazione e la definizione dei picta nilotica romana. Revista Eviterna, (12), 122- 138/ https://doi.org/10.24310/Eviternare.vi12.14953

 

1. Introduzione

Sic ubi deseruit madidos septemfluus agros

Nilus et antiquo sua flumina reddidit alveo

aetherioque recens exarsit sidere limus,

plurima cultores versis animalia glaebis

inveniunt et in his quaedam modo coepta per ipsum

nascendi spatium, quaedam inperfecta suisque

trunca vident numeris, et eodem in corpore saepe

altera pars vivit, rudis est pars altera tellus.

quippe ubi temperiem sumpsere umorque calorque, concipiunt, et ab his oriuntur cuncta duobus,

cumque sit ignis aquae pugnax, vapor umidus omnes

res creat, et discors concordia fetibus apta es (Ov. Metam. I, 422-433).

 

Indubbiamente, notevole risulta la fortuna del tema del paesaggio nell’ambito della pittura romana. Nelle pieghe evolutive di questo genere sono attestate, infatti, svariate modalità di raffigurazione, che si delineano come consapevoli manifestazioni di sperimentazioni adottate già a partire dal VI secolo a. C. con Polignoto di Taso e perfezionate successivamente nel corso del IV secolo a. C. (Dall’Olio, 1993, pp. 179- 181; La Rocca, 2008, pp. 7-13; La Rocca, 2009, pp. 39-53; Rouveret, 1982, pp. 571-588; Rouveret, 2015, pp. 208-218). Solo all’interno dello sviluppo parietale romano il paesaggio, che nelle epoche precedenti fungeva principalmente da sfondo della scena figurata, diviene co-protagonista insieme ai soggetti rappresentati, se non protagonista assoluto della raffigurazione (Salvadori, 2008, pp. 23-46). Esplicita riprova si individua nei noti passi di Plinio il Vecchio (Nat., XXXV, 116) e di Vitruvio De Arch., VII, 5, 1-2) dedicati alla descrizione dei sistemi decorativi della pittura parietale. Dalle parole dei due autori si ricostruisce quel «repertorio paesaggistico» (Bianchi Bandinelli, 1963, p. 816) che plasma i paesaggi romani basati su schemi tipologici, costruiti ispirandosi a quelli reali, estrapolandone gli elementi caratterizzanti. Questi ultimi, definiti con il termine topia dagli autori latini, si potrebbero considerare come sintesi creative mentali forgiate dall’estro degli artisti, filtri di passaggio tra la realtà della naturalezza e il compendio artistico, ovvero veri e propri «paesaggi della mente» (La Rocca, 2008, p. 32).

Tra le molteplici varianti paesaggistiche riprodotte nel repertorio pittorico romano, spiccano per il carattere indubbiamente alternativo i cosiddetti ‘paesaggi nilotici’. Questi si configurano come paesaggi di fantasia che, seppur trattati con toni realistici, con continui richiami al delta del Nilo e alle attività quotidiana che si svolgono lungo il fiume, diventano pitture di maniera e motivo di evasione (Capriotti Vittozzi, 2006, pp. 37-49; De Vos, 1980, pp. 75-89; Swetnam-Burland, 2015, pp. 71-82; Versluys, 2002, pp. 4-15). Alcuni elementi iconografici risultano inoltre particolarmente ricorrenti in questa tipologia figurativa: i topoi del paesaggio d’Egitto si configurano come dettagli puntuali, rappresentazioni stereotipate che, anche se analizzate singolarmente, possono effettivamente svolgere un ruolo identificativo per le scene ambientate lungo il Nilo.

In questo contributo l’interesse è rivolto in particolar modo verso l’elaborazione e la definizione del paesaggio nilotico nella produzione pittorica romana tramite l’analisi di alcuni dettagli figurativi legati al mondo della flora e della fauna. Un insieme di elementi che, fondendosi armoniosamente insieme, conducono verso la configurazione di un’ambientazione naturale tesa ad un’ideale di fluttuante utopia che, tuttavia, collide con l’insita portata di alterità dell’immaginario nilotico. Un’alterità fortemente vincolata alla presenza dei pigmei, figure contraddistinte nella maggior parte dei casi da tratti caricaturali e grotteschi, inseriti spesso in situazioni comiche, se non paradossali.

2. I picta nilotica romana: diffusione e peculiarità di una tipologia figurativa

2.1 La ‘geografia cronologica’

Prima di indagare nello specifico lo sviluppo iconografico e terminologico delle composizioni pittoriche a tema nilotico, si presenta uno status quo tanto geografico quanto cronologico di queste attestazioni di epoca romana, risultato derivante dai dati raccolti durante la ricerca di dottorato svolta dall’autrice[1]. Dal punto di vista cronologico, la comparsa di composizioni pittoriche ispirate al paesaggio egiziano risale al I secolo a. C. con i frammenti dall’atrio della Villa dei Misteri a Pompei, datati 80-70 a. C., che rappresentano l’attestazione più antica sulla base della documentazione attualmente esistente (Clarke, 1991, p. 94; De Vos, 1980, pp. 9-12; Versluys, 2002, pp. 155-157). Altre testimonianze sono note continuativamente fino alla metà del II secolo d.C. circa (Capriotti Vittozzi, 2006, pp. 37-44; De Vos, 1980, pp. 75-95; Merrils, 2017, pp. 131-137; Meyboom, 1995, pp. 241-248). Sono tuttavia da segnalare casi cronologicamente più avanzati come, per esempio, i frammenti parietali delle Terme dei Cacciatori di Leptis Magna, datati alla metà del III secolo (Versluys, 2002, pp. 187-189), ed il fregio pittorico di una cisterna da Salamina datato al VI secolo (Versluys 2002, pp. 476- 477). Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle pitture nilotiche, rientrano nell’indagine le testimonianze provenienti da Italia, Spagna, Francia, Nord Africa, Grecia e Cisgiordania [Fig. 1].

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Fig. 1: Carta di distribuzione geo-cronologica dei picta nilotica romana. Elaborazione propria.

2.2 La formulazione dell’immagine d’Egitto a Roma: i ‘marcatori nilotici’

Ben nota è la fascinazione per la terra egiziana nelle civiltà greca e romana, così come la cruciale importanza del fiume che la attraversa. Nell’Odissea, infatti, lo stesso termine ‘Egitto’ indica sia il paese sia il fiume, rendendo ancora più tangibile la coincidenza dei due elementi[2]. Successivamente, lo storico Erodoto affermerà che «L’Egitto è dono del Nilo» (Hom. Od. 14, 257-258; Hdt. 2, 5, 1). La terra d’Egitto corrisponde pertanto al fiume che la bagna: è allo stesso tempo parte integrante e derivazione diretta del Nilo. Questo legame indissolubile conduce verso una formulazione iconografica in cui la rappresentazione del territorio egiziano è fortemente connessa al corso d’acqua che lo contraddistingue, specialmente durante il momento della sua piena. 

Prima di avanzare nell’analisi precipua delle immagini nilotiche, risulta però fondamentale mettere in luce il fatto che l’esistenza di rapporti tra Roma e l’Egitto tolemaico risulti attestata sin dal 273 a. C. come testimoniato nel riassunto del perduto libro XIV di Tito Livio: cum Ptolomaeo, Aegypti regi, societas iuncta est. La data precisa si ritrova in un altro autore tardo, che dipende da Livio, ossia Eutropio: «C. Fabricio Luscino et C. Claudio Cinna coss., anno urbis conditae CCCCLXI, legati Alexandrini, a Ptolemaeo missi, Romam venere, et a Romanis amicitiam, quam petierant, obtinuerunt» (Evtr. 2.15). Questo trattato di amicitia, che permise l’avvio di contatti sempre più intensi tra l’Egitto e la Repubblica, costituisce la premessa indispensabile per chiarire la storia dei rapporti politici, economici e culturali tra il mondo tolemaico e quello romano (Bellucci, 2021, pp. 3-44; Coarelli, 2019, pp. 105-128).

Oltre a ciò, è essenziale segnalare la concomitante introduzione della religione egiziana nella Roma repubblicana. La presenza di culti egizi è attestata, in ambito privato, almeno a partire dalla seconda metà del II secolo a. C. Culti privati, introdotti con ogni probabilità da commercianti e marinai alessandrini che frequentavano le coste della Campania e del Lazio, che avevano preceduto la successiva acquisizione religiosa in ambito pubblico, come dimostrato dalla nota Lex Parieti Faciendo di Pozzuoli, in cui si ricavano notizie sui lavori di costruzione davanti al tempio di Serapide, venerato già prima del 105 a. C., e dall’Iseo pompeiano costruito negli stessi anni (Capriotti Vittozzi, 2020; Gasparini, 2008, pp. 65-87). Nell’ambito della cultura figurativa, l’indicazione più antica risale alla prima metà del II secolo a .C. in un frammento di Diodoro Siculo (Bibl. Hist., XXXI, 18, 2) si riporta un episodio avvenuto nel 164 a. C., quando Tolemeo IV, espulso dall’Egitto dal fratello minore, venne a Roma per chiedere al Senato la reintegrazione dei suoi poteri. A Roma venne ospitato da Demetrio, suo concittadino, che era già noto per la sua attività di pittore, come confermato in un passo di Valerio Massimo (5, 1, 1f), che lo definisce ‘pittore alessandrino’. La vicenda dimostra efficacemente la presenza a Roma di artisti egiziani già nella prima metà del II secolo a. C. Altrettanto importante è considerare il soprannome del pittore Demetrio, che Diodoro definisce ‘il topografo’ che, in questo caso è da intendersi molto probabilmente, come pittore di paesaggi (Merrillis, 2017; Meyboom, 1995; Versluys, 2002).

Questo fa pensare inevitabilmente ai mosaicisti, presumibilmente di origine alessandrina, che pochi decenni più tardi realizzarono il celebre mosaico nilotico di Palestrina. Molteplici ed articolate sono pertanto le trame che animano la storia delle relazioni tra Roma e l’Egitto. All’interno di questo percorso ricostruttivo risultata indubbiamente funzionale soffermarsi sulla testimonianza visiva che, più di ogni altra, documenta l’ingresso delle raffigurazioni di ambito egittizzante in ambiente italico: il mosaico pavimentale rinvenuto nel santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina (120-110 a.C.). Quest’opera si configura come risultato delle esperienze nel campo della cartografia e della prospettiva, culminanti nelle più mature di matrice alessandrine, e, al tempo stesso, più antico modello di riferimento conservato dei nilotica. Genere quest’ultimo che, pur prosperando nel lessico figurativo romano, risulterà irrimediabilmente condannato ad una produzione sempre più standardizzata e convenzionale (Pearson, 2021), come messo già efficacemente in evidenza da Balty:

Ainsi donc, comptés depuis longtemps parmi les modèles hérités de l'époque hellénistique, les thèmes nilotiques ont perdu peu à peu leur signification première d'hommage au dieu Nil ou de glorification du paysage égyptien ; en quelque sorte usés sur le plan du message qu'ils portaient, ils ont été dès lors limités à leur valeur décorative: on n'en voudra pour preuve que le morcellement extrême qui les affecte dans la dernière phase de cette évolution. Devenus désormais de simples motifs dépourvus de sens précis, ils étaient susceptibles de se charger ou non, selon les cas, d'une signification qui a pu varier. Et c'est là précisément la raison profonde de leur extraordinaire permanence (Balty, 1995, p. 254).

Addentrandosi più nel vivo del tema in disamina, è possibile rilevare, a livello generale, la ripetitività di un repertorio di soggetti specifici nella documentazione pittorica conservata[3]. In primo luogo, le rappresentazioni della flora e della fauna, che contraddistinguono il contesto d’Egitto, svolgono una funzione precipua nella realizzazione e nella successiva interpretazione di tali scene figurate. Inoltre, l’inserimento di edifici con torri, padiglioni, templi, recinzioni ed altre strutture edilizie, contribuisce a tratteggiare contorni più nitidi e realistici dell’orizzonte architettonico egiziano (Voltan, 2022b). In secondo luogo, la raffigurazione di pigmei, che animano in differenti contesti e modalità lo scenario egiziano, si configura come tassello imprescindibile nella strutturazione compositiva ed evocativa dello scenario nilotico. Queste tipologie di dettagli, che definirei dei veri e propri “marcatori nilotici”, evidenziano in senso stretto il campo spaziale e connotano semanticamente questa peculiare tipologia figurativa (Voltan, 2022c).

Tre sono le categorie che vengono trattate a livello generale in questo contributo. Nella prima, in cui convergono gli elementi legati al mondo della flora, rientrano: palme, fiori di loto e piante acquatiche di differente tipologia, che animano ed arricchiscono il paesaggio nilotico con tratti di realismo più o meno vivaci. Questi dettagli si profilano come componenti essenziali nella ricreazione paesaggistica dell’Egitto, rivestendo però anche una valenza significante nella scelta compositiva medesima [Fig. 2]. Risulta pertanto interessante verificarne la ripetitività all’interno del repertorio romano per constatarne il ruolo indubbiamente centrale nell’ideazione e nell’identificazione di questa peculiare soluzione iconografica. Come si apprezza nel grafico, nelle pitture nilotiche in disamina sono presenti in quarantuno casi piante acquatiche di differente tipologia, in venticinque attestazioni palme (Torelli, 2002, pp. 139-151; Voltan & Valtierra, 2020, pp. 593-613) e in ventuno fiori di loto [Fig. 3].

 

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Fig. 2: Pittura nilotica da Ercolano, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 8651). Estratto da Bragantini, S. (2009), pp. 392-393, fig. 193.

Fig. 3: Grafico con percentuali delle diverse tipologie di flora attestate nelle pitture nilotiche romane. Elaborazione propria.

La seconda categoria di marcatori nilotici è quella connessa alla rappresentazione della fauna che vive lungo le sponde del Nilo. Anatre, coccodrilli, ippopotami mantengono il primato di presenze nelle composizioni a tema nilotico, seguite dalle raffigurazioni meno frequenti di ibis, serpenti, gru, pesci e volatili in generale [Fig. 4]. Risulta consueta la raffigurazione, in una medesima opera, di anatre insieme a coccodrilli ed ippopotami (Trinquier 2002, pp. 861-919; Trinquier 2007, pp. 23-60; Miziur 2012-2013, pp. 451-465). Anche per questa categoria, ritengo utile verificare la frequenza delle tipologie rappresentate, al fine di individuare più agevolmente i soggetti maggiormente rappresentativi dell’immaginario egizio nell’ottica romana. Nello specifico, nelle pitture nilotiche in analisi, si riscontra la seguente distribuzione: il coccodrillo compare in ventisei casi, l’anatra in ventisei, l’ippopotamo in sedici, l’ibis in dieci, la gru in sei casi, il serpente in un caso e varie tipologie di pesci in quattro casi [Fig. 5].

 

 

 

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Fig. 4: Pittura nilotica da Ercolano, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 9229). Estratto da Bragantini, S. (2009), p. 412, fig. 211.

Fig. 5: Grafico con percentuali delle diverse tipologie di fauna attestate nelle pitture nilotiche romane. Autore: elaborazione propria.

 

La terza categoria è caratterizzata dalla raffigurazione di personaggi peculiari, che animano in differenti contesti e modalità lo scenario egiziano [Figs. 6-7]. Codesti sono raffigurati, ad esempio, mentre trasportano carichi, banchettano sotto dei padiglioni, remano lungo le acque fluviali, combattano contro la fauna nilotica; frequenti sono anche le scene erotiche (Clarke, 2006, 155-169; Meyboom, Versluys, 2006, 171-208).  Le composizioni nilotiche, dunque, si animano di un variopinto repertorio di soggetti, costituito dalla raffigurazione di personaggi storicamente caratterizzati a cui si aggiungono, spiccando per la particolare suggestività, le figure del nano e del pigmeo. Si reputa opportuno a questo punto dedicare un breve excursus riguardo il significato dei due termini e l’applicabilità di questi soggetti nelle formulazioni iconografiche nilotiche di epoca romana. La letteratura ha spaziato ampiamente sul tema e, in particolare negli ultimi decenni, ha preso forma un corposo dibattito a riguardo[4]. Per ‘nano’ si intenderebbe una persona affetta da una mutazione genetica che comporta, oltre che una statura particolarmente bassa, anche una costituzione fisica visibilmente sproporzionata. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’individuo presenta grandi dimensioni della volta cranica, gambe corte e piegate, glutei molto prominenti[5]. Con il termine odierno di ‘pigmeo’ si designerebbe invece un individuo di bassa statura però fisicamente proporzionato, appartenente a popolazioni dislocate non solo nelle foreste equatoriali africane, ma anche in altre aree del mondo (Janni, 1978, pp. 129-136). Ai pigmei si richiamava già Omero, che li menziona in un famoso passo:

I Troiani avanzarono con grida e schiamazzo, come uccelli, quale è in cielo il grido delle gru che fuggono il maltempo e la gran pioggia e volano gridando alle correnti dell’Oceano portando ai Pigmei morte e sterminio» (Hom. Il. 3, 2-6).

Anche Erodoto fa riferimento ai pigmei definendoli come piccoli uomini, più bassi delle persone normali (Hdt. 2, 32). Tra le tradizioni etnografiche antiche più note, si annoverano quelle che collocherebbero i pigmei in Egitto, come nel caso di Aristotele, che li situa alle sorgenti del Nilo e li definisce cavernicoli (Arist. HA 597 a)[6]. Secondo altre fonti, come Ctesia di Cnido, che ne richiama la pelle scura, il membro virile sproporzionato, la capigliatura lunga fino al ginocchio, i peli folti e la barba tanto lunga da poter sostituire le vesti, vivono in India (FGrH 688, F 45)[7]. Plinio il Vecchio li colloca sulle montagne dell’India, al di là del Gange, precisando che abitano in capanne costituite di fango, penne d’uccello e gusci d’uovo, ma segnala anche altre collocazioni per il popolo dei pigmei (Plin. HN, 7.26)[8]. Eustazio, invece, localizza i pigmei di ‘piccola statura’ e ‘di breve vita’ nella leggendaria Thule (Eust. 3.1-7).

Svariate fonti classiche ritorneranno quindi sul tema, che troverà efficace riflesso anche nella produzione artistica, a partire dalle più antiche testimonianze del mondo greco dei primi decenni del VI a.C., e dal mondo etrusco, tra il IV ed il III secolo a.C. (Dasen, 1994, pp. 594-601; Harari, 2004, pp. 163-188). Senza però addentrarsi in quest’allettante tematica, al fine di non deviare troppo dalla motivazione principale dell’excursus, preme sottolineare un passaggio fondamentale nella storia degli studi riguardanti la suddetta materia: la confusione nell’interpretare come pigmei i peculiari soggetti che animano le scene nilotiche romane. Come precedentemente accennato, il pigmeo non è sproporzionato da un punto vista fisico perché, sebbene di bassa statura, non presenterebbe malformazioni.

Queste ultime paiono spesso invece caratteristiche che connotano in maniera evidente diverse figure inserite nei contesti di tipo nilotico dove, tranne rari casi, le categorie di nano e di pigmeo non risultano consapevolmente ritratte (Clarke, 2006, p. 161; Versluys, 2002, p. 276). Si propone perciò illuminante, in tal senso, la conclusione a cui si è giunti recentemente: la rappresentazione visiva del soggetto che i Greci definivano come ‘pigmeo’ combina l’antica pseudo-etnografia, che vedrebbe l’origine della razza pigmeoide in Egitto, con la patologia del nanismo: «Ancient authors designate pathological dwarfs with two terms, pygmaioi or nanoi, used as synonymous as in art, where mythical pygmies are depicted like achondroplastic dwarfs» (Dasen, 2017, p. 114). Da quest’unione si sarebbe generata una forma ibrida sinonimo di alterità per antonomasia, concretizzazione non tanto di una realtà esistente quanto più di uno status estraneo ai limiti del tempo e dello spazio umanamente concepiti. Questa reinterpretata tipologia di pigmeo coinciderebbe pertanto con la formulazione artistica attestata prima nel vocabolario iconografico ellenistico e romano. In questa sede si è ritenuto idoneo utilizzare il termine ‘pigmeo’ per riferirsi ai personaggi rappresentati nelle ambientazioni nilotiche sia che si tratti di pigmei, nel senso di esseri non sproporzionati, sia che si tratti di soggetti affetti da nanismo, che si ritrovano nella maggior parte della casistica esaminata. Nel presente contributo, si considera difatti più appropriato l’utilizzo di tale vocabolo nel tentativo di creare una connessione più intima con l’ideologia ed il sistema culturale sottesi alle creazioni romane (Bragantini, 2007, p. 22). Un sistema di elementi che, una volta entrati nel «circuito della comunicazione […] divengono parte dell’immaginario dell’epoca e indirizzano le scelte di committenti e artigiani» (Bragantini, 2006, p. 167).

La ricorrenza e le tipologie dei marcatori riguardanti la flora, la fauna e i pigmei, permettono di comprovare la ripetitività di un repertorio specifico all’interno della creazione del paesaggio nilotico. Una verifica che, pertanto, conduce verso l’individuazione di elementi precisi, che oltre a vivacizzare la composizione, si profilano funzionali nella comunicazione dei contenuti delle immagini ispirate all’Egitto. Questi dettagli iconografici diventano, pertanto, soggetti e chiave di lettura delle composizioni nilotiche. Tali elementi, costantemente ripetuti, consentono di pensare e di concretizzare l’idea che la società romana aveva della terra egizia. Proprio attraverso la riproposizione nell’immagine bidimensionale è possibile tentare di individuare il vocabolario codificato che ne stava alla base. Un linguaggio costituito da soggetti specifici che, nell’immaginario dell’epoca, permettevano di illustrare il mondo distante e differente dell’esotica terra d’Egitto. Un sistema di comunicazione fondato quindi sull’applicazione e sulla ricorrenza dei marcatori nilotici presi in considerazione nel presente studio. Marcatori che si configurano come ricordi della concezione e della memoria di questa terra dalla storia millenaria, frammenti figurati di un’immensa miniera di temi e modelli culturali.

 

 

 

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Fig. 6: Pittura nilotica da Pompei, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 113195). Estratto da Bragantini, S. (2009), p. 418, fig. 216.

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Fig. 7: Pittura nilotica da Pompei, Casa dei Pigmei (IX 5, 9), ambiente l. Estratto da Bellucci (2021), p. 485, Tav. 1.25.

3. L’utopia e l’alterità della terra d’Egitto

Il paesaggio nilotico, come osservabile nella selezione di pitture presentate, coincide con un’ambientazione caratterizzata dalla presenza del fiume, spesso durante la piena, dai peculiari esemplari della flora e della fauna, dai pigmei che svolgono varie attività lungo le sponde del fiume. Questi, d’altronde, non sono altro che quei ‘marcatori nilotici’ indicati in precedenza, che costituiscono gli stereotipati riflessi di una serie di stratificati processi compositivi all’interno del linguaggio figurativo romano. Si rivela, inoltre, opportuno considerare che il particolare clima egiziano e l'ambiguità del Nilo, fiume dalla physis differente da quella degli altri corsi d'acqua, sono strettamente intrecciati alla stranezza dell'Egitto, paese ricco di meraviglie, di anomalie e contraddistinto dalla diversità dei suoi abitanti. Gli Egiziani, infatti, sono caratterizzati da costumi e da leggi contrari a quelli degli altri uomini: «Horrida sane Aegyptos», sentenzia Giovenale (Juv. Sat., XV, 44). Un vero e proprio mondo alla rovescia: una «Terra expers imbrium mire tamen fertilis et hominum aliorumque animalium perfecunda generatrix» (Mela 1, 41). Un territorio pertanto ineguagliabile, così delineato da Isidoro di Siviglia:

L'Egitto ha sempre il sole grazie al calore dell'aria; non riceve mai piogge o nuvole e i suoi luoghi sono inondati dal fiume Nilo che, inondandoli nel periodo estivo, causa la presenza di piogge. Lo stesso fiume nasce tra l'Auster e il Levante. I venti etesiani si trovano sul lato dello Zephirus, cioè l'Ovest e hanno una durata limitata. Nascono nel mese di maggio, il loro inizio è flebile, ma con il passare dei giorni aumenta. Soffiano dalla sesta alla decima ora. Il loro colpo resiste alle onde e si oppone anche alle insenature, attraverso le quali il fiume sfocia nel mare con grappoli di sabbia. Le onde del Nilo si gonfiano e vengono spinte all'indietro. In questo modo, le acque vengono respinte e ritornano verso il sud o verso l’Auster. Il Nilo straripante irrompe in Egitto. Gli Etesiani placati, il cumulo sabbioso infranto, di nuovo il Nilo ritorna al suo corso (Isid. Nat., 43, 1-2).

In effetti, una delle caratteristiche del Nilo coincide con il suo ruolo di elemento unificatore piuttosto che separatore, come invece accade per molti corsi d'acqua che marcano confini geografici, etici ο politici. In tal senso, la peculiarità del fiume d’Egitto non è quella di attuare delle distinzioni o di separare culture differenti tra loro ma, al contrario, permette di forgiare una duplice coesione, fisica e culturale, tra il territorio egiziano e i suoi abitanti. Un corso d’acqua che, proprio per il suo transito solo apparentemente separatore, diviene invece motivo di connessione, simbolo della stessa identità egiziana.

Se dunque il Nilo corrisponde alla fusione tra territorio e popolazione, risulta altresì significativo considerare un altro aspetto. Il paesaggio nilotico rappresenta nell’immaginario romano una frontiera tra il noto e l'ignoto, tra l'universo ordinato e l’alterità caotica: una sorta di terra di confine in cui l’adesione al mos maiorum convive in quel “folle Egitto” indicato da Giovenale. Un equilibrio che ben si riflette nella discors concordia di ovidiana memoria, che potrebbe trovare applicazione anche nella contrastata relazione tra il carattere di utopia e quello di alterità che contraddistingue le composizioni nilotiche. Reputo, infatti, particolarmente stimolante un recente studio comparativo di Fragaki riguardo il carattere utopico dell’Egitto ravvisabile in alcuni documenti letterari e figurativi (Fragaki, 2008, pp. 96-122). Tramite l’accurata selezione di testi classici e di picta nilotica, la studiosa evidenzia il carattere idillico del territorio egiziano, terra di saggezza per eccellenza, ‘museo del sapere’ nell’immaginario platonico (Fragaki, 2008, p. 100), che ben si riflette anche nelle stesse peculiarità fisiche dell’Egitto:

Ainsi l’Egypte, traversée par le Nil qui inonde sa superficie et fertilise la terre, était peut-être la région la plus appropriée pour la projection des fantaisies aquatiques typiques de “l’ile des bienheureux”, telle qu’elle apparaît dans l’imaginaire grec. En effet, la mer, les canaux navigables, et les sources d’eau bénéfique qui garantissent la fertilité de la terre constituent déjà chez Platon un des traits principaux de la cité idéale (Fragaki, 2008, p. 107).

            Condividendo pienamente la linea interpretativa dell’autrice in questa direzione, in particolare per quanto riguarda l’assegnazione di una ‘cifra’ idillica all’ambientazione del Nilo, credo però che, oltre all’individuazione di un possibile passaggio dai topia all’utopia, sia interessante rilevare il contrasto che si verrebbe a creare tra la tensione utopica degli elementi del paesaggio nilotico e, invece, il tratto di alterità insito nelle figure dei pigmei. Questi ultimi, a partire dai modesti esordi, divennero i veri protagonisti dalla seconda metà del I secolo andando di fatto a sostituire i normali esseri umani e prospettandosi quasi sempre impegnati in attività assurde e a volte spregevoli, trasformando, di conseguenza, la componente spiritosa di queste scene in burlesca (Cèbe, 1966, pp. 349-355; Tybout, 2003, pp. 512-515). Difatti, prima nell'immaginario ellenistico e successivamente in quello romano, la rappresentazione di questi soggetti è contraddistinta da dettagli anatomici molto precisi, controbilanciati però da una forte tendenza alla caricatura. Le caratteristiche anormali vengono enfatizzate o aggiunte per creare un effetto grottesco: i pigmei figurano spesso con falli smisuratamente grandi, volti esasperati da smorfie e pose molto contorte. Il paradosso che prende forma può essere spiegato in parte dal particolare senso dell'umorismo degli antichi romani, particolarmente attratti dalle malformazioni fisiche[9].  Tuttavia, anche le antiche credenze popolari legate alle funzioni apotropaiche del fallo e delle persone malformi possono chiarire questa tendenza all'esagerazione (Cèbe, 1966, pp. 354-359)[10].

Proprio a partire dalle considerazioni esposte in questo paragrafo, parrebbe possibile individuare una sorta di collisione sia dal punto di vista figurativo sia semantico tra la rappresentazione dell’ambiente nilotico e i pigmei. Si verrebbe ad instaurare, infatti, un vincolo chiaroscurale tra la visione utopica e cristallizzata dell’ambiente nilotico, contraddistinto dalle tipologie di flora e fauna peculiari dell’orizzonte egiziano, e l’elemento umano. Elemento che, nel caso delle attestazioni nilotiche, corrisponde alla figura del pigmeo che, come già sottolineato nel corso della trattazione, può assumere una serie di poliedriche valenze. In particolare, per quanto riguarda questo studio, è fondamentale evidenziare quel valore di alterità e di distanza dal mos maiorum tradizionale romano, che si inserisce in maniera profondamente disarmonica all’interno dell’utopia naturalistica della terra egiziana, riflessa nelle pitture di paesaggi nilotici.

4. Conclusioni

Complesso è, pertanto, il tentativo di circoscrivere il paesaggio nilotico, poiché si annoverano svariate accezioni corredate da altrettante numerose sfumature al loro interno. In conclusione, credo che la definizione di questa tipologia paesaggistica assuma di per sé la valenza di un concetto, al cui interno si possono individuare dei punti fermi, corrispondenti ai marcatori nilotici, di cui non è però possibile delimitarne dei limiti precisi che, di fatto, restano alquanto vaghi e, per così dire, fluttuanti. Il paesaggio nilotico, al di là della funzionalità decorativa che intrinsecamente riveste, si profila dunque come uno degli strumenti indispensabili per carpire con maggior chiarezza il complesso ed instabile sistema di relazioni instauratosi tra l’Egitto e le altre province dell’Impero, in particolare con l’Italia. Una chiave di lettura che appare indispensabile per indagare più da vicino i poliedrici vincoli tra la terra egiziana ed il mondo romano e in cui tuttora si avvertono delle zone d’ombra che, inevitabilmente, contribuiscono a enfatizzare quel senso di esoticità idilliaca e di alterità grottesca, elementi intrinsechi nella cifra stilistica dei nilotica.

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[1] Il contributo presenta parte dei risultati derivanti dalla mia tesi di dottorato, titolata Picta nilotica romana. Elaboración y difusión de la iconografía del paisaje de Egipto en el mundo romano (Universidad de Málaga- Università degli Studi di Padova), finalizzata alla catalogazione e allo studio delle pitture a tema nilotico attestate nelle province dell’Impero romano tra il I secolo a.C. e il VI secolo d.C. Per quanto riguarda nello specifico la metodologia impiegata nel presente studio, si rimanda a: Voltan (2022a).

[2] «[…] al quinto giorno arrivammo all’Egitto bella corrente, ancorai nel fiume Egitto le navi ben manovrabil»: Hom. Od. 14, 257-258; traduzione a cura di Ciani, 2001. 

[3] Questi dati figurano come parte dei risultati derivati dalla mia tesi di dottorato e dalla conseguente metodologia applicata (cfr. nota 1).

[4] Nel presente contributo non si entra nel dettaglio del dibattito, poichè non costituisce tematica precipua del lavoro. A titolo generale, si rimanda alle seguenti pubblicazioni per approfondire il tema: Bahuchet, 1963, pp. 153-181; Ballabriga, 1981, pp. 57-74; Clarke, 2006, p. 161; Dasen 1988, pp. 253-276; Dasen, 1993, pp. 169-174; Janni, 1978, pp. 19-48; Moret 2012, pp. 137-162; Versluys 2002, pp. 275-277.

[5] In questo caso si sta facendo esplicito riferimento al tipo più comune di nanismo, che corrispode alla tipologia raffigurata nelle composizioni nilotiche romane, definito “acondroplasia”. Per approfondire, si rimanda a: Dasen, 1988, p. 255; Dasen, 1993, pp. 7-21.

[6] La medesima ipotesi etnografica, si ritrova in Strabone: Str. 1, 42.

[7] Sempre in India li colloca anche Megastene: FHG 715, F 27 a-b, 29.

[8] Altri riferimenti alla medesima tematica si ritrovano sempre in Plinio il Vecchio: Plin. HN, 4.44; 5.109; 6.70 e 187.

[9] I pigmei, infatti, sono spesso caricaturizzati per aumentare la loro attrattiva e imitare in modo giocoso i personaggi della vita quotidiana (Dasen, 1988, pp. 275-276).

[10] Alle persone deformi, come per esempio i gobbi, si attribuiva il potere di respingere influssi maligni, perché la loro deformità attirava il malocchio (Levi, 1941, pp. 228-229).