PIETRO CONSAGRA A GIBELLINA:

UN IPOTESI DI CITTÀ FRONTALE

 

PIETRO CONSAGRA IN GIBELLINA:

A HYPOTHESIS OF A FRONTAL CITY

 

Matteo Sanfilippo (Universidad de Málaga, España) matteo_sanfilippo@hotmail.it

 

Recibido: 26 junio 2021    / Aceptado: 25 agosto 2021

 


Astratto: Lo scultore italiano Pietro Consagra con il testo La città frontale, scritto nel 1968 dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti, si mette in polemica contro l’architettura funzionalista, avanzando l’ipotesi di una partecipazione attiva degli artisti allo sviluppo dell’impianto urbano e architettonico delle città. Gibellina, piccola città siciliana ricostruita con l’aiuto di numerosi artisti dopo il terremoto che la distrusse completamente nel 1968, è stato il campo di sperimentazione delle teorie avanzate da Consagra. Qui l’artista ha attuato parte della sua utopia di città frontale, realizzando grandi sculture e architetture tutte legate al principio della frontalità. Proprio la frontalità è l’espediente che l’artista ha utilizzato sin dagli anni cinquanta per creare un rapporto paritario fra opera e fruitore, le sculture frontali così come le architetture non cercano di imporsi e dominare il circostante da un centro ideale, si lasciano invece attraversare, invitano a un colloquio a tu per tu, creando un rapporto intimo di complicità con ciò che le circonda. Questa utopia è nata anche grazie alla volontà di Ludovico Corrao, illuminato sindaco di Gibellina per più di un ventennio, e grazie soprattutto alla popolazione che, dopo la catastrofe e la tabula rasa portata dal terremoto, ha accettato e partecipato con entusiasmo alle proposte degli artisti. Tramite un’analisi comparativa delle opere realizzate a Gibellina da Consagra, metteremo in evidenza il dibattito nato fra artisti e architetti in questo periodo sulle possibilità di sviluppo condiviso delle future città.

Parole chiave: scultura; architettura; città; Gibellina; Pietro Consagra

Abstract: The Italian sculptor Pietro Consagra, with the text La città frontale (The frontal city), written in 1968 after a long trip to the United States, put himself in polemic against functionalist architecture, advancing the hypothesis of an active participation of artists in the development of the urban and architectural structure of cities. Gibellina, a small Sicilian town rebuilt with the help of many artists after the earthquake that completely destroyed it in 1968, was the field of experimentation of the theories advanced by Consagra. Here the artist has implemented part of his utopia of frontal city, creating large sculptures and architecture all linked to the principle of frontality. Frontality is the expedient that the artist has used since the fifties to create an equal relationship between the work of art and the user. Frontal sculptures as well as architectures do not try to impose themselves and dominate the surrounding area from an ideal center, but instead they let themselves be crossed, they invite to a face-to-face conversation, creating an intimate relationship of complicity with what surrounds them. This utopia was born also thanks to the will of Ludovico Corrao, enlightened mayor of Gibellina for more than twenty years, and thanks above all to the population that, after the catastrophe and the tabula rasa brought by the earthquake, accepted and participated with enthusiasm to the artists' proposals. Through a comparative analysis of the works realized in Gibellina by Consagra, we will highlight the debate born between artists and architects in that period about the possibilities of shared development of future cities.

Key words: Sculpture; architecture; city; Gibellina; Pietro Consagra;


 


Cómo citar este artículo: 

Sanfilippo, M. (2021). Pietro Consagra a Gibellina: un ipotesi di città frontale. Revista Eviterna 10, 128-141 / DOI https://doi.org/10.24310/Eviternare.vi10.12822

1. Contesto: la polemica di Consagra contro l’architettura funzionalista

La carriera artistica dello scultore Pietro Consagra (Mazara del Vallo, 1920 - Milano, 2005), lunga più di mezzo secolo e ricca di riconoscimenti, è un esempio di combattività e tenacia nell’affermazione di un’idea sviluppata fino alle estreme conseguenze; la sua scultura è un atto di protesta contro tutti i sistemi che subordinano all’aspetto funzionale ed economico della vita della città ogni altro aspetto, opponendo a questa visione deprimente e meramente funzionale il primato della comunicazione estetica, prerogativa dell’artista ed espressione della qualità della vita e delle azioni dell’uomo.

            La sua polemica contro l’architettura moderna, che ha abdicato al senso dell’ornamento giudicandolo superfluo, era già stata lanciata dall’artista sul finire degli anni sessanta con il testo La città frontale (Consagra, 1969). Tra il 1967 e il 1968, Consagra fa un lungo viaggio negli Stati Uniti rimanendo colpito dalle città americane e dalla carica emotiva sprigionata da architetti come Sullivan. È di questo periodo l’idea di un edificio frontale che poi si svilupperà nel sogno di un’intera città frontale progettata da artisti, utopia in parte realizzata a Gibellina[1].

            Nella frontalità l’artista passa dallo spessore minimo delle Sottilissime, sculture fatte da lamine di metallo dello spessore di decimi di millimetro, allo spessore massimo dell’edificio. I modellini di edifici realizzati in questo periodo con acciaio inossidabile, hanno un profilo dall’andamento sinuoso che delimita due facciate contrapposte identiche e trasparenti. Gli spazi interni coincidono con la struttura esterna, l’andamento curvilineo continuo delle superfici e i diversi livelli creati dalle pendenze favoriscono nel fruitore un comportamento creativo, facendogli assumere posizioni e punti di vista insoliti, sia all’interno che all’esterno dell’edificio.

            Se il dibattito fra artisti e architetti su chi fosse responsabile della conformazione dello spazio urbano era già stato avviato da tempo, a Gibellina questa polemica diventa bruciante, sollevando problematiche irrisolte e da tempo discusse fra le ragioni dell’arte e le ragioni dell’architettura, inserendosi nel vivo della questione proprio nel momento cruciale della costruzione di una nuova città. Ai giovani architetti Consagra intima di ribellarsi a questo atteggiamento remissivo nei confronti dell’utilità, pena la morte dell’architettura:

            Giovani di architettura, giovani architetti destinati a seguire modelli tecnici standardizzati, se soffrite di inutilità del vostro inserimento e siete delusi di come si prepara il futuro senza stimoli, ribellatevi. Date carica al vostro dubbio, al vostro sospetto. Non chiudete gli occhi. Le opere costruite devono essere accolte dalle necessità e nello stesso tempo dalla partecipazione. L’architettura contemporanea invece non ha consenso. Costruire è un messaggio o un abuso, un furto, un ingombro. L’architettura ha un altissimo quoziente di imposizione. Quando si apre un cantiere in città, viene voglia di contestare. Ma la banalità impianterà la bandiera. L’architetto deve uscire dalla bassa tenuta culturale. L’architettura ha voglia di morire? (Accame & Di Milia, 1996, p.15).

2. La frontalità in Consagra

Questa necessità di occuparsi in prima persona di questioni legate alla città e di conseguenza all’architettura, nasce nell’artista gradualmente, come conseguenza di un naturale sviluppo della sua scultura, soprattutto della scultura frontale che intraprende già dai primi anni cinquanta[2] e che porta avanti, continuamente variandola, per tutta la sua lunga carriera artistica. Lo stesso Consagra dichiara che proprio dall’adozione della frontalità nella sua scultura emerge quella necessita di rompere con gli schemi professionali e allacciare proficui rapporti di collaborazione anche in altri campi dell’arte:

            La mia visione frontale oltre ad aggiungersi nel panorama della scultura, ha rotto il vincolo della barriera professionale, per suggerire un linguaggio rinnovato anche in altri campi dell’arte. Dal momento che criticavo l’architettura contemporanea, ho pensato di dovermi mettere all’opera come architetto. Al ritorno dagli Stati Uniti nel 1968, ho scritto il libro La città frontale, in cui esprimevo la mia ribellione contro l’architettura di allora che rispondeva soltanto a necessità funzionali, capendo che l’architettura da sé non esprimeva più una coscienza plastica, progettai gli Edifici Frontali, perché da scultore avevo mantenuto la libertà di formulare immagini plastiche e di spostare la mia esperienza in tutti i lati della creatività. Nacquero così nel 1968 quei miei edifici che si delineano con piani curvi continui e che contrastando l’abuso razionalista dell’angolo retto privilegiano la comunicazione estetica (Giacchino & Rotelli, 2004, p. 36).

            Nell’artista la scelta della frontalità scaturisce dalla volontà di togliere l’oggetto scultoreo dal centro ideale; la posizione centrale di per sé predomina sullo spazio circostante, così la scultura collocata al centro impone la sua presenza solo per il fatto che occupa quella determinata posizione, determinando anche tutta una serie di aspettative e di identificazioni simboliche che nel tempo si sono attaccate alla scultura come delle sovrastrutture significanti, cancellando, in  realtà,  la vera motivazione della scultura.

            Con questo gesto Consagra si scrolla contemporaneamente dall’autorità della collocazione spaziale centrale e dalle pretese simboliche che si erano accumulate intorno alla scultura; privilegiando un rapporto diretto con il fruitore, Consagra propone uno sguardo orizzontale che dialoga con gli eventi, ponendo la sua scultura a servizio della società senza dominarla, piuttosto facendo parte di essa come uno qualsiasi degli eventi che la rappresentano.

            La frontalità è nata dentro di me come alternativa al totem, cioè alla scultura che doveva nascere al centro di uno spazio ideale. Presentando un’urbanistica diversa, cioè quella della frontalità, mi sono tolto dal proposito di occupare uno spazio al centro del quale costruire qualcosa, un punto di attenzione convergente. La frontalità io l’ho sentita come un ridimensionamento delle pretese che si erano accumulate intorno alla scultura, pretese religiose, sociali, di ordine costituito passato o futuro; ho voluto scaricare la scultura da tutte queste pretese di simbolo per creare un rapporto più diretto, frontale appunto, a tu per tu, con lo spettatore. (Carandente, 1973, p. 31).

            Il motivo della frontalità[3], continuamente rielaborato dall’artista per più di mezzo secolo, potrebbe apparire come una limitazione delle soluzioni formali possibili; invece, contrariamente alle apparenze, la sua scultura frontale si rinnova continuamente in soluzioni formali che aprono a sempre nuovi problemi tecnici e di conseguenza a ulteriori invenzioni formali. Così dal modulo quadrangolare delle opere iniziali, che giacevano in sé stesse, passa alle linee curve dei lavori successivi, che tendono a imprimere nell’opera movimenti spiraliformi che dilatano l’oggetto verso l’esterno per poi tornare a comprimerlo verso l’interno.

            Tenendomi al piano quadrangolare (invece che al rettangolo per esempio) mi sentivo più sicuro dentro l’ipotesi che mi ero dato della frontalità come colpo diretto, vis-à-vis nei confronti di chi guarda, e come successione, a direzione orizzontale, delle immagini. Ora, nel corso del mio lavoro, la dimensione quadrangolare si è scomposta, si è rotta verso la linea curva, circolare e sono nati nuovi problemi: le immagini non sono più differenziate e in colloquio nello schema quadrangolare, una direttrice a spirale da origine ad una immagine unica. Vado con la spirale dal dentro verso il fuori e dal fuori cerco di ritornare verso il dentro: per me è come respirare. (Consagra, 1967, s.p.)

3. La città degli artisti

Nonostante nella sua scultura non si ritrovano elementi antropomorfici, lo spazio creato da Consagra non è uno spazio astratto, ma è uno spazio per l’uomo, per risolvere i conflitti della realtà concreta, attuale. In Necessità della scultura[4], Consagra (1952) dice: «Dobbiamo avere le nostre sculture, per i nostri episodi, per i nostri pensieri». Come ci ricorda Maurizio Calvesi (1960; Carandente, 1973, p. 59), la scultura di Consagra si colloca nell’ambito della società, non nel senso di farsi interprete di un’istanza classista, ma nel senso di partecipazione e convivenza della scultura alla formazione dei valori originari che la società produce al suo interno. La scultura di Consagra non è una denuncia contro la società, piuttosto è un voler servire la società dall’interno, con il massimo d’autonomia consentita, offrendo un prodotto indispensabile e altamente qualificato.

            Nel 1947 Consagra assieme ad altri artisti fondarono a Roma il gruppo Forma 1[5]. Nel manifesto del gruppo si proclamava di essere «formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili»[6]. L’esperienza di Forma 1, seppur importante per il rinnovamento del clima dell’arte italiana dell’epoca, fu di breve durata. Il formalismo di Consagra non si può definire astratto, se astratto significa non avere nessun legame con la realtà, pura astrazione geometrica; piuttosto le sue sculture, sebbene non evocano forme antropomorfe, sono portate a significare la realtà per la loro stessa organizzazione strutturale. In questo senso Consagra è ancora uno scultore classico, che si preoccupa di organizzare in maniera nuova lo spazio reale, misurandosi comunque entro una problematica storica, se non addirittura tradizionale della scultura. Come dice Giulio Carlo Argan:

la forma è figura perché manifesta qualcosa di esistente. La scultura di Consagra è molto più vicina di quanto non si creda al motivo storico della ‘statua’, in quanto ‘doppio’, evocazione diretta di qualcosa che è o è stato vivo. Così Consagra rivendica senza timore la funzione non soltanto tradizionale ma arcaica o originaria dello scultore, quella, che gli assegnava Platone, di creatore di figure, di simulacri, di statue. Soltanto che la figura, il simulacro, la statua non hanno più significati, storici, religiosi, mitologici: sono soltanto la configurazione in immagine, dunque secondo i limiti e i modi della mente umana, dello spazio infinito e invisibile, dello spazio inteso come condizione e dimensione dell’esistenza (1962, Carandente, 1973, pp. 63-64).

            Consagra più volte ha sottolineato che il suo lavoro ha a che fare con lo spazio dell’uomo, con le dinamiche storiche della società e dell’esistenza, di cui si nutre per potersi evolvere; da qui il suo interesse per la città, luogo della massima tensione collettiva. Dice l’artista:

Avendo perduto l’animalità, la vita spontanea, non c’è altro che la città come possibilità di riprendere contatti con la naturalezza dentro se stessi. Dentro se stessi che significa? Che tu ti rifletti con tutti i contatti umani che hai. Ora, la città da il massimo di questi rapporti, la città ti toglie la nostalgia, assorbe al completo la tua intelligenza, te la sfoga, te la adopera (Lonzi, 1969, s.p.).

            Questa esigenza di confrontarsi con la società, di dialogare con essa, è la molla principale che a un certo punto porta l’artista a indirizzare il suo lavoro sul tema della città. Un tema elaborato dall’artista sia nella scultura, come ad esempio le tante porte realizzate in diversi materiali, che nell’architettura vera e propria. Questa incursione nel campo disciplinare dell’architettura viene vista da molti architetti come un abuso, un’intrusione non gradita di un artista che ha voluto giocare a fare l’architetto; altri invece come Bruno Zevi[7], che difendono Consagra, sostengono che la commistione di tutte le arti è necessaria per l’evoluzione dell’architettura. È interessante notare come gli architetti romani Franco Purini e Laura Thermes, che a Gibellina operarono nello stesso periodo di Consagra, abbiano un’alta opinione delle sculture del maestro di Mazara del Vallo e considerano le stesse architetture come grandi sculture dalla funzione spiccatamente estetica. Nello stesso tempo però esprimono i loro dubbi sui limiti del progetto architettonico della città frontale di Consagra, considerandolo efficace finché si limita a strutture isolate e uniche nello spazio, ma inefficace nella conformazione di un’intera città. Purini dichiara:

Tornando per un attimo alle opere di Consagra penso che all’architettura competa una sua intensità linguistica che non può essere quella della scultura o della pittura. […]. Ecco perché l’eccesso autografico di Consagra va bene. Ma non si può pensare un’intera città fatta di tanti Meeting. Quell’oggetto fatto di superfici curve è una scultura che posso abitare ma che deve restare isolato e unico. È questo il limite della teoria esposta nel libro La città frontale, un bellissimo manifesto che risente pienamente del 1968, l’anno in cui fu pubblicato (Cristallini, Fabbri, Greco, 2004, p. 109).

            Se da una parte L’opinione di Purini e Thermes, rispecchia la volontà di mantenere separati gli statuti delle rispettive discipline, pensando che all’architettura e non alle arti plastiche spetta il ruolo principale nella conformazione della città, Consagra dal canto suo risponde:

Accuso gli architetti di avere trascurato l’individuo che «guarda» a favore dell’individuo che ‘usa’ il grande oggetto: l’edificio. Ho sentito involutivo il funzionalismo economico, strutturale, politico dell’architettura, da cui si può uscire solo con il richiamo all’arte delle immagini. Penso che sia il momento che gli artisti vengano coinvolti per salvare la città dall’abbruttimento. Ho voluto rendermi disponibile (Appella, 1981, p. 13).

            Questo coinvolgimento degli artisti nella progettazione della città non è visto però da Consagra come l’esito di un procedere puramente irrazionale che fa appello esclusivamente alla fantasia dell’artista, ma come l’esito di un approccio progettuale che dà forma alle esigenze della comunità attraverso lo studio e la valorizzazione plastica dei luoghi della vita quotidiana. Possiamo vedere come le architetture di Consagra, così come le sue sculture, hanno sempre avuto una lunga fase di gestazione, un’intensa fase progettuale manifestatasi negli studi e nei disegni preparatori, nella creazione dei modellini, nelle prove cromatiche che realizzava anche attraverso la pittura. Giovanni Accame mette in rilievo proprio l’aspetto rigorosamente progettuale del lavoro di Consagra affermando che:

Non troviamo, dalla Città frontale agli ultimi edifici realizzati, uno scardinamento della progettualità, una volontà di sottrarre la creazione di forme plastiche ai problemi di progettazione. Abbiamo invece un’idea del progetto altamente responsabile nei confronti della forma che esprime. Il progetto, nel contesto in cui interviene, ha il controllo della forma, il dovere e la possibilità di soddisfare esigenze diverse, senza mai tradire la sua libertà creativa, che è l’unica a garantirgli un segno di autenticità. È all’essere libero e autentico che l’architetto, troppe volte, rinuncia (Accame, 1996, p.61).

            Quest’autenticità presunta nel lavoro dell’artista non dipende tanto dalle sue capacità progettuali, che sono comunque necessarie, quanto piuttosto dalla sua capacità di tenere fede solo alla libertà creativa, unica garante d’autenticità. Tutta la carica polemica di Consagra contro l’architettura moderna non fa altro che ribadire questo concetto: l’architetto ha tradito il suo nobile ruolo di creatore di belle forme per trasformarsi in un designer con una logica di progetto esclusivamente legata alla risoluzione economico-funzionale dello spazio della città. Dice Consagra:

Se siamo anche sicuri che un individuo diventa artista nella ricerca di un modo espressivo e tangibile, della sua idea di liberazione e della sua idea di partecipazione, come esperienza di uomo che vive un suo mondo da un suo punto, per una determinabile presa di possesso nella società, dobbiamo avere fiducia nella capacità dell’architetto di diventare quel personaggio diverso per quell’opera nuova quando si troverà in una situazione diversa da quella attuale. Se l’architetto può affrontare tale situazione nuova e diventare artista, teniamo presente che l’artista, il pittore, lo scultore, è già nella situazione nuova per essere architetto (1969, s.p.).

            L’artista è nella situazione nuova, quella situazione, frutto dell’epoca contemporanea per cui il lavoro dell’artista non è più sottoposto, almeno apparentemente, a referenze di tipo storico, religioso, ecc. come nel passato, ma svolge una funzione autonoma all’interno della società. La funzione che gli conferisce Consagra è quella di instaurare il massimo legame fra l’uomo e la naturalezza, non intesa come un ritorno alla natura selvaggia, ma alla naturalità dell’uomo moderno che occupa uno spazio artificiale, quasi completamente antropizzato. L’arte è come una sorta di riappropriazione della natura in seno all’uomo metropolitano, una nostalgia dell’animalità perduta che si ritrova.

            L’arte è l’alternativa. L’arte, ai massimi livelli della coscienza, rimane il massimo legame con la naturalezza. L’arte, e non il ritorno alla natura, è l’alternativa alla strumentalizzazione dell’uomo nella città mostruosa che ci vogliono imporre gli organi competenti del potere. […]. Una città espressa da artisti è l’alternativa alle mitologie del Potere, dell’efficienza, dell’adeguarsi al risultato più alto, delle quotazioni in ascesa, della vita presa come materia da confezionare, del condizionamento dei cervelli. La Città Frontale è l’alternativa (Consagra, 1969, s.p.).

            L’impeto di ribellione di Consagra è specchio dei tempi (1968) rivoluzionari che correvano quando La Città Frontale fu immaginata e scritta. Nonostante Consagra per alcuni versi estremizzi la sua polemica, il suo intervento non è ingenuo mettendo in rilievo un problema, quello della responsabilità dello sviluppo e della configurazione della città, ancora oggi attualissimo. L’estremismo di Consagra sta soprattutto nell’assolutizzare il problema della città come risolvibile unicamente con l’arte, quando sappiamo che senza i sistemi di potere anche l’arte non avrebbe seguito. Le stesse opere di architettura frontale che Consagra ha potuto realizzare a Gibellina sono frutto della concessione di un sistema di potere, collettivo se vogliamo dato che il consenso dei cittadini è stato unanime, ma pur sempre un sistema di potere, diretto dall’allora sindaco Ludovico Corrao[8].

4. Consagra a Gibellina

Tante le opere che a Gibellina hanno assunto i tratti del politico, nel senso greco del termine, che attiene alla pόlis, la cosa pubblica. Consagra, reduce dalle sue ricerche sul tema della città, trovò qui terreno fertile per mettere in opera le sue teorie, realizzando una serie di sculture frontali monumentali e delle architetture frontali frutto dei suoi progetti precedenti sulla città frontale. L’opera inaugurale, dal forte impatto iconico, quella che forse riscuoterà più successo, sarà la Porta del Belice (1981) [Fig. 1], conosciuta anche come Stella del Belice, che Consagra realizza in acciaio inox rilucente all’ingresso della città di Gibellina. La stella, simbolo di buon auspicio, richiama alla mente la strana avventura capitata a Goethe nel suo viaggio in Sicilia, proprio in queste zone, nei pressi di Castelvetrano:

Di notte mi capitò una strana avventura. Stanchissimi, ci eravamo buttati sui letti di un locale tutt'altro che accogliente; a mezzanotte mi sveglio e sopra la mia testa scorgo la più lieta delle apparizioni: una stella di tale bellezza come non mi pareva d'averne mai vedute. Mi conforto tutto a quella vista amabile e propiziatrice, quando a un tratto il soave lume scompare e mi lascia solo nel buio. Sul far del giorno capii il perché del prodigio: nel tetto c'era un buco, e in quel momento una delle più belle stelle del cielo era passata per il mio meridiano. Ma a noi viaggiatori non parve vero d'interpretare a nostro favore quel semplice fenomeno di natura (Goethe, [1816-1817] 2017, s.p.).

 

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Fig. 1. Pietro Consagra, Porta del Belice, Gibellina, 1981. Acciaio inox, 26 x 26 m. Fotografia: colezzione dell’autore.

            La più splendida delle apparizioni si può rivelare in realtà un semplice accidente della natura, ma l’accidente è anche visto come segno di buon auspicio, sprone a continuare il viaggio. La scultura alta 26 metri è posizionata a cavallo dello snodo autostradale, all’imbocco dell’autostrada Palermo – Mazara del Vallo, così che chi passa dall’autostrada vede perfettamente la grande struttura che apre l’ingresso alla Valle del Belice. La scultura è attraversabile dalle automobili e si profila con due lati identici secondo lo stile frontale dell’artista. Gli elementi curvilinei in acciaio che compongono la struttura come dei grandi petali gravitano attorno al centro, acquisendo leggerezza e allo stesso tempo dinamismo ed eleganza. Altro richiamo al territorio che la stella suggerisce sono le luminarie del paese, addobbi tipici delle città siciliane in festa per il patrono o il santo protettore che evocano sentimenti di gioia ed esultanza. La Stella del Belice e la Porta d’accesso all’Orto botanico di Gibellina (1984) [Fig. 2], così come le successive porte realizzate dallo scultore siciliano, come le Porte del Cremlino (1990) e la Porta di Giano (1995), sono sculture che ambiscono a diventare architetture, non solo per la mole imponente, soprattutto perché instaurano nell’ambiente in cui si collocano una funzione di soglia, di attraversamento. Le porte invitano ad essere attraversate fungendo sia da soglia-limite, come una frontiera fra un qui e un’altrove, ma anche da soglia-passaggio che conduce a uno spazio aperto, libero, utopico se vogliamo.

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Fig. 2. Pietro Consagra, Porta dell’orto botanico, Gibellina, 1984. Cemento e marmo, 8 x 10 m. Fotografia: colezzione dell’autore

            Le sculture si lasciano attraversare, ma si lasciano anche abitare, sono loro stesse attraversate e abitate dallo spazio, creano lo spazio e al contempo sono nello spazio. «Dovremmo imparare a riconoscere che le cose stesse sono i luoghi e non solo appartengono a un luogo» (Heidegger [1969] 1984, p. 29). Secondo il filosofo tedesco, la scultura non è una presa di possesso dello spazio, ne tantomeno un confronto con lo spazio. «La scultura sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose» (p. 29). Per Heidegger la scultura è «il farsi corpo della verità dell’Essere nella sua opera instaurante luoghi» (p. 33). Ma in conclusione ci dice anche che: «Già un primo cauto sguardo in ciò che è più proprio di quest’arte ci fa presentire che la verità in quanto non-ascosità dell’Essere non è necessariamente destinata a farsi corpo» (p.33)[9].

            Come dice Goethe, non è necessario che prenda corpo, basta che la verità aleggi nell’aria per apportare i suoi influssi benefici. A Gibellina questo sentimento serpeggia nascosto fra le opere che segretamente custodiscono la verità; come da una fonte inesauribile, inconsumabile dice Pasolini parlando della Poesia, a cui attingere esse elargiscono doni preziosi, non quantificabili da un valore economico. Il farsi corpo della verità non è percepito solo nella materia-forma di cui sono costituite le opere, ma nelle relazioni che s’intessono attorno ad esse, nella maglia di corrispondenze -Baudelaire- che le opere intrecciano fra di loro, con il paesaggio e con la vita della comunità. Nel Meeting [Fig. 3], così come nel Teatro rimasto incompiuto, Consagra cerca di coniugare la dimensione simbolica dell’opera d’arte alla dimensione funzionale dell’abitare dell’edificio, non secondo i canoni funzionali dell’usabilità, ma preferendo un approccio creativo che si riflette nei comportamenti dei fruitori.

Fig. 3. Pietro Consagra, Meeting, Gibellina, 1976. Fotografia: colezzione dell’autore.

            Evitando l’angolo retto il progetto si sviluppa tutto sulla linea curva continua che avvitandosi su se stessa delinea una sorta di grande esse, creando un movimento continuo delle superfici, che in parte trasparenti lasciano intravedere l’interno dell’edificio e il paesaggio retrostante. Sia il Meeting, che il Teatro sono stati concepiti da Consagra come opere attraversabili all’interno del tessuto urbano, riaffermando anche per l’architettura quella funzione di soglia, già elaborata nelle porte, dell’opera d’arte. Dice Consagra:

Il Meeting è il primo edificio frontale che proviene dalla mia proposta di Città Frontale con edifici che privilegiano in prima istanza l’osservatore, edifici come opere d’arte. […]. Questo oggetto nuovo lo abbiamo visto crescere con l’ansia dell’imprevisto e le emozioni del sorprendente. È una notevole responsabilità culturale mentre l’architettura si trova in uno stallo drammatico. Con il Meeting di Gibellina mi confermo scultore interessato a partecipare direttamente ai problemi dell’architettura entrando dalla parte giusta, accertando che oggi solo dai processi vissuti nell’arte si può arrivare all’architettura e non dal design, né dalla visitazione di schemi e logiche del passato. L’edificio a nastro proietta sui due fronti paralleli il suo schema trasparente. L’immagine formulata scorre sospesa ai confini del sentimento espressivo e la visione è leggera e intensa. L’interno ha una sua spazialità fluida che fa sentire nell’insieme da qualsiasi punto ci si trovi (Carandente, 1985, p. 8).

            Una delle prime opere che Consagra installò a Gibellina furono i cancelli del cimitero nuovo (1977), questi furono realizzati assieme a Franco Cassarà, un artigiano anch’egli divenuto artista che firmò l’opera assieme al maestro. I due cancelli formati da quattro ante asimmetriche in ferro scatolato hanno ognuno una forma a sé stante, inoltre ogni cancello porta un titolo diverso, Riferimento all’irripetibile [Fig. 4] e Riferimento all’unicità [Fig. 5], con il preciso intento di significare l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo essere umano. Dice l’artista dei due cancelli in ferro per il cimitero, che le due ante non si ripetono: «per puntare, proprio all’ingresso tra i morti, sul meraviglioso significato di essere unici e irripetibili in tutta l’immensità di individui dell’esistenza passata e futura» (La Monica, 1981, p. 56). Franco Cassarà, l’artigiano che materialmente ha realizzo i cancelli ricorda:

Ho passato molto tempo con Consagra: spesso andavo a prenderlo all’aeroporto di Punta Raisi. Lungo la strada per Gibellina, gli facevo tante domande. Lui era un uomo di cultura e io ero così, terra terra, come si dice. Volevo che mi spiegasse che cosa rappresentavano i cancelli. Lui mi rispondeva che lasciava spazio all’immaginazione: ognuno ci poteva vedere ciò che voleva. Per me, diceva, per esempio, uno dei cancelli potrebbe rappresentare un pettine per le anime, che purifica. Ma l’interpretazione resta libera, precisava. Anche della Stella abbiamo parlato tanto, e per lui l’ispirazione nasceva sempre libera, senza una forma prestabilita (Camarrone, 2011, p. 82).

Fig. 4. Pietro Consagra, Riferimento all’irripetibile, Gibellina, 1977. Ferro. Fotografia: colezzione dell’autore.

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Fig. 5. Pietro Consagra, Riferimento all’unicità, Gibellina, 1977. Ferro. Fotografia: colezzione dell’autore.

            Un pettine per le anime dice Consagra malinconicamente; un filtro, un setaccio che all’ingresso del regno dei morti raschia via le impurità dalle anime. La funzione di soglia che incide la scultura nel passaggio da un luogo a un altro, un non-luogo in questo caso, il regno dei morti, è presente anche qui; anche se la funzione del cancello è quella di chiudere e delimitare uno spazio, qui la sua funzione è stata studiata dall’artista per le anime che lo devono attraversare simbolicamente, svolgendo nei loro confronti un ruolo di attrito e scriminatura purificatore proprio all’ingresso dell’oltretomba, esemplarmente alla soglia fra il visibile e l’invisibile, fra la vita e la morte, fra un luogo e un non-luogo.

5. Conclusioni

A Gibellina, l’esperimento di Consagra per un verso è stato fortemente criticato, sia da una parte dall’opinione pubblica che da una parte del mondo accademico, per altri versi ha dato seguito a dibattiti e iniziative che si sono rivelate fruttuose, a livello nazionale e internazionale, su un discorso di collaborazione, fra artisti e architetti, più ampio e diversificato nel concepire le creazioni degli spazi pubblici. Un altro elemento che emerge in questo contesto è il ruolo della comunità, quale funzione svolge nella realizzazione del contesto in cui vive?

            Gibellina è stato un laboratorio sperimentale che ha provato a dare risposte concrete a queste problematiche; al di la delle considerazioni di carattere formale sulla specificità del linguaggio architettonico o scultoreo che si potrebbero fare, è evidente che a Gibellina l’impatto del’arte è stato ed è tuttora fortissimo. Nonostante le molte critiche e i tanti detrattori del progetto, i cittadini di Gibellina si sono fortemente identificati con queste opere, fondando la loro nuova identità, dopo la tabula rasa lasciata dal terremoto, proprio sui valori immaginifici proposti dall’arte.

6. Referenze bibliografiche

Accame, G. M. & Di Milia, G. (a cura di). (1996). Consagra Scultura e architettura. Milano: Gabriele Mazzotta.

Appella, G. (1981). Colloquio con Consagra. Roma: Della Cometa.

Camarrone, D. (2011). I Maestri di Gibellina. Palermo: Sellerio.

Carandente, G. (a cura di). (1973). Pietro Consagra. Palermo: Nuovo Sud.

--- (a cura di). (1985). Pietro Consagra, la città frontale e interferenze 1968-1985. Roma: Salone Renault.

Consagra, P. (1952). Necessità della scultura. Roma: Lentini.

--- (1967). Consagra. Catalogo mostra Galleria dell’Ariete. Milano: Galleria dell’Ariete.

--- (1969). La città frontale. Bari: De Donato.

Cristallini, E., Fabbri, M. & Greco, A. (a cura di) (2004). Gibellina nata dall’arte una città per una società estetica. Roma: Gangemi.

Giacchino, S. & Rotelli, M. N. (a cura di) (2004). Gibellina, un luogo, una città, un museo. La ricostruzione. Palermo: Publisicula.

Goethe, J. W. (1816-1817). Viaggio in Italia. Edizione de Castellani, E. (2017). Milano: Mondadori.

Heidegger, M. (1969). L’arte e lo spazio. Edizione di Angelino, C. (1984). Genova: Melangolo.

Lonzi, C. (1969). Autoritratto. Bari: De Donato.

La Monica, G. (1981). Gibellina: ideologia e utopia. Palermo: La Palma.

 

 



[1] Gibellina è una piccola città della Sicilia che nel 1968 fu distrutta completamente da un terremoto devastante. Nei decenni successivi fu ricostruita a quasi venti kilometri di distanza dal vecchio centro abitato; alla ricostruzione parteciparono numerosi artisti, scultori e architetti di fama internazionale. Consagra, di origine siciliana, fu tra i primi artisti ad accorrere in aiuto a Gibellina, qui ha progettato e costruito parte del suo progetto utopico La città frontale, realizzando diverse opere: scenografie per il teatro, pannelli decorativi in ceramica, arte applicata, sculture, architetture. Proprio le architetture hanno sollevato le polemiche più aspre, innescando un dibattito nazionale.

[2] Dal 1952 al 1962, la serie di sculture denominate Colloqui aprono la stagione della frontalità. Da una scultura precedente, di matrice cubista costruttivista, che privilegiava slanciate figure totemiche poste al centro dello spazio, Consagra passa ad una scultura frontale appoggiata alle pareti come uno schermo, che privilegia un punto di vista unico, una sorta di visione orizzontale a tu per tu con il fruitore. Negli anni l’approccio frontale subirà sempre nuove metamorfosi trasformandosi in frontalità girevole, frontalità trasparente, bi frontalità, bi frontalità attraversabile, fino alla frontalità vissuta dell’edificio e dell’intera città. 

[3] In arte il motivo della frontalità non è nuovo, già gli antichi Egizi ne avevano sfruttato ampiamente le potenzialità, la pittura vascolare Greca ne è un altro esempio, abbiamo anche alcune forme di scultura collocate in nicchie o in ambienti che ne determinano la visione frontale (un esempio per tutte il San Giorgio di Donatello 1415-1417 circa, marmo, h 209 cm. Firenze, Museo Nazionale del Bargello), più recentemente ballerine come Mary Wigman e Isadora Duncan hanno sfiorato la frontalità ispirandosi nei loro balletti alle figure piane dei vasi greci. Quindi Consagra non inventa o scopre un motivo già conosciuto da secoli, semplicemente se ne impossessa per realizzare un’opera appropriata al suo tempo storico, anzi utilizzando la frontalità come una tattica di liberazione dal potere costituito e affermazione dell’autonomia dell’arte.

[4] Questo libro fu scritto da Consagra come risposta al libro scritto da Arturo Martini, La scultura lingua morta (1945), per affermare che invece di una lingua morta la scultura era un linguaggio universale e attuale, indispensabile alla società moderna.

[5] Gli artisti Carla AccardiUgo AttardiPietro ConsagraPiero DorazioMino GuerriniAchille PerilliAntonio Sanfilippo e Giulio Turcato fondano a Roma la rivista Forma 1 che uscirà un'unica volta nell’aprile del 1947; qui troviamo il manifesto del gruppo che prenderà il nome dall’omonima rivista. Nel manifesto dichiarano: «Riconosciamo nel formalismo l'unico mezzo per sottrarci ad influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche; il quadro, la scultura, presentano come mezzi di espressione: il colore, il disegno, le masse plastiche, e come fine un'armonia di forme pure: La forma è mezzo e fine. il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura anche come arredamento di una stanza; il fine dell'opera d'arte è l'utilità, la bellezza armoniosa».

[6] La pubblicazione del manifesto avviene in un momento in cui sono forti le divergenze sulle scelte estetiche tra i sostenitori dell'arte astratta e i fautori di un'arte figurativa d'impegno civile. Guttuso, che durante il periodo del fascismo ha rappresentato un punto di riferimento per i giovani artisti, si schiera a favore di una pittura realista, aderendo alle posizioni del Partito Comunista. Il segretario generale del P.C.I., Palmiro Togliatti entra personalmente nella controversia, condannando senza mezzi termini l'astrattismo e schierandosi a favore del realismo sociale.

[7] Bruno Zevi (Roma22 gennaio 1918 – Roma9 gennaio 2000) è stato un architetto, urbanista, politico e accademico italiano noto soprattutto come storico e critico d'architettura.

[8] Ludovico Corrao (Alcamo, 1927, Gibellina, 2011) è stato un avvocato e politico italiano: famoso per aver difeso nel 1965 Franca Viola, la prima donna   che in Italia si ribello al matrimonio riparatore a seguito di sequestro e violenza e che sfidando una società maschilista, contribuì in modo determinante a far cancellare dal codice penale il delitto d’onore. Fu esponente di punta e teorico del Milazzismo, movimento politico siciliano che reclamava l’autonomia siciliana, è stato senatore della Repubblica italiana più volte, sindaco di Gibellina per quasi un ventennio, da dopo il terremoto fino alla fine degli anni novanta. Sotto la sua guida in un ventennio la popolazione di Gibellina ha visto nascere le opere d’arte contemporanee, fiorire il teatro, crescere le architetture e l’editoria, sviluppare laboratori di ceramica, di ricamo e di artigianato.

[9] Heidegger in conclusione, a conferma del suo discorso, cita Goethe che dice: «Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è già sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane si distende amico nell’atmosfera apportatore di pace». (p. 33)